Torino, i 76 miliardi fermi e la dignità dei figli che attendono
di Pietro Bucolia – Consulente finanziario e narratore economico
UNA CITTÀ SOTTO ESAME
A volte ci vuole il coraggio di un profeta per dire l’essenziale. E a volte servono i dati di un sociologo per confermare che quel profeta non parla per metafore, ma per verità. È quello che sta accadendo in questi giorni a Torino. Una città bellissima, colta, industriosa, ma troppo spesso immobile, chiusa, spaventata. Dove 76 miliardi di euro giacciono fermi nei conti correnti, mentre i giovani se ne vanno, le imprese arrancano e il futuro sembra sospeso.
Il cardinale Roberto Repole lo ha detto chiaramente il 24 giugno, durante l’omelia per la festa di San Giovanni:
«Torino tiene i soldi in banca. E le aziende se ne vanno. I giovani trovano solo lavori precari. Come pretendiamo che mettano su famiglia e facciano figli?»
Pochi giorni dopo, il sociologo Luca Davico ha confermato il quadro sul Corriere della Sera:
«Tanti soldi, poca crescita. I capitali restano fermi. I giovani bloccati. Senza investimenti, il futuro non nasce.»
IL CAPITALE CHE NON DIVENTA VITA
Questa è la fotografia impietosa di una ricchezza che, invece di generare benessere, si trasforma in zavorra. Di un patrimonio che non fluisce. Di un potenziale enorme che non si trasforma in progetto, né in casa, né in impresa, né in lavoro. È come se la città si fosse chiusa in un silenzio prudente, che nel tempo è diventato afasia collettiva.
Eppure le risorse ci sono. La ricchezza privata esiste. Ma resta ferma per paura, per sfiducia, per mancanza di visione. È un paradosso feroce: la città con uno dei patrimoni privati più alti d’Italia è anche quella con i tassi più alti di emigrazione giovanile e di denatalità.
I FIGLI CHE CI GIUDICANO
Repole ha colto il punto con parole che pesano come pietre:
«Un giorno i bambini saranno adulti e ci chiederanno conto di tutto. Della precarietà che abbiamo lasciato. Della paura che ci ha bloccati. Della bellezza che non abbiamo osato generare.»
Non si tratta solo di investire. Si tratta di credere nei figli. Di non lasciarli soli in un mondo costruito su algoritmi e rendite passive. Di ricordarci che ogni capitale non è solo un bene da proteggere, ma anche una responsabilità da mettere in circolo.
IL DOVERE DI NOI CONSULENTI
Per chi fa il mio mestiere, questo è un tempo esigente. Ma anche straordinario. Perché non basta più amministrare un portafoglio. Oggi dobbiamo insegnare a costruire una cattedrale patrimoniale: solida, generativa, capace di futuro. Non per moltiplicare i rendimenti, ma per rispondere alla chiamata di chi verrà dopo.
Come ha scritto Davico:
«Non si tratta solo di redistribuire la ricchezza, ma di rimetterla in moto. Di farne un progetto condiviso. Di costruire un’alleanza tra generazioni.»
NON SEPPELLIRE I TALENTI
La parabola evangelica è chiara: il talento sepolto è un’occasione perduta. E forse oggi la città rischia proprio questo: conservare per paura, invece di generare per amore.
Per questo serve una finanza diversa. Umana. Visionaria. Radicata nel territorio. Capace di aiutare le famiglie a investire in ciò che conta davvero: figli, lavoro, senso, comunità.
UNA DOMANDA DA NON EVITARE
Alla fine, resta una domanda. Semplice, diretta, ineludibile.
Che antenati vogliamo diventare?
Quelli che hanno lasciato ai propri figli solo un conto in banca?
O quelli che hanno trasformato quel capitale in futuro, in speranza, in bellezza viva?
CHIAMAMI, SE VUOI DARE UN SENSO NUOVO ALLA TUA RICCHEZZA
Se senti che il tuo patrimonio può diventare una benedizione per chi verrà, se vuoi trasformare il silenzio prudente in una scelta coraggiosa, parliamone.
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