Il rischio bellico catalizza l’attenzione globale, ma il vero fronte si apre altrove: debito USA in tensione, fiducia estera in calo, Fed sotto pressione. Una crisi più profonda si avvicina, invisibile ai radar della geopolitica.
di Pietro Bucolia – Consulente finanziario e narratore economico
Il teatro mediorientale e l’illusione della visibilità
La partenza improvvisa del presidente Donald Trump dal vertice del G7 in Canada, ufficialmente motivata dalla necessità di seguire da vicino le tensioni in Medio Oriente, ha avuto effetti immediati sull’umore dei mercati. Israele è coinvolto in raid su obiettivi iraniani, mentre Trump, via social, invita la popolazione a evacuare Teheran. Il rischio di escalation appare concreto.
Nel frattempo, i mercati azionari americani oscillano con nervosismo: salgono se circolano voci distensive, crollano se emergono nuove minacce. È una volatilità giornaliera che distrugge ogni prospettiva strategica.
Un altro fronte, molto più vicino e molto più silenzioso
Dietro la tempesta geopolitica, si consuma una crisi meno visibile ma ben più sistemica: il disimpegno degli investitori esteri dal debito pubblico americano.
Secondo i dati della Federal Reserve di New York:
- le banche centrali straniere hanno venduto 48 miliardi di dollari in Treasury da fine marzo,
- i depositi esteri nella facility di reverse repo della Fed si sono ridotti di altri 15 miliardi.
È un segnale chiaro: il sostegno internazionale al debito USA si sta erodendo.
Il paradosso del dollaro debole
Nel 2025 il dollaro è in calo: l’indice Bloomberg Spot ha perso l’8 percento da inizio anno. In passato, un dollaro più debole rendeva i Treasury più appetibili per gli investitori esteri. Oggi, invece, accade l’opposto.
Secondo Bank of America, si tratta di un comportamento anomalo. Le banche centrali sembrano preferire la diversificazione valutaria al rischio fiscale americano. È un indizio concreto di de-dollarizzazione.
Le crepe nelle aste del Tesoro
Le aste più recenti di Treasury a 2 e 20 anni confermano il trend: la partecipazione estera è debole. Gli acquisti sono trainati da broker-dealer e soggetti tecnici, non da investitori convinti.
Gli strategist parlano di crepe nella domanda globale. E se il Tesoro sarà costretto a offrire rendimenti più alti per trovare compratori, la stabilità dei conti pubblici e dei tassi d’interesse sarà in pericolo.
Una riforma fiscale fuori tempo massimo
In questo contesto già delicato, arriva la nuova proposta fiscale del Senato, definita dallo stesso Trump “One Big, Beautiful Bill”. Il pacchetto prevede:
- un innalzamento del tetto al debito di 5000 miliardi,
- incentivi permanenti per R&D, ammortamenti e interessi passivi,
- una versione diluita della revenge tax,
- il mantenimento del tetto SALT a 10000 dollari,
- la cancellazione graduale dei crediti per auto elettriche,
- limiti ai fondi di dotazione universitari,
- deduzioni specifiche per mance e straordinari,
- modifiche ai requisiti Medicaid per le famiglie.
Si tratta di una manovra politicamente efficace, ma fiscalmente rischiosa. E arriva proprio mentre la pazienza dei creditori esteri sembra sul punto di esaurirsi.
La Fed di fronte a un bivio
In questo clima, la Federal Reserve si riunisce domani. Con la domanda di Treasury in calo e l’offerta in aumento, l’ipotesi di un ritorno al quantitative easing, anche selettivo, non è più fantascienza.
Il ruolo della Fed potrebbe tornare centrale non solo nel controllo dei tassi, ma come acquirente di ultima istanza. Un segnale forte che la questione fiscale è tornata al cuore della politica monetaria globale.
Un equilibrio fragile che nessuno vuole guardare
La distrazione mediatica sulla crisi mediorientale rischia di oscurare il vero fronte critico: la fragilità fiscale americana. Il mix tra deficit crescente, fiducia in calo, riforme espansive e domanda estera in ritirata rappresenta un rischio sistemico. Un rischio che i mercati, per ora, scelgono di non guardare.
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